Demansionamento Inidoneità Fisica – Poste

In caso di privatizzazione del rapporto di lavoro e di stipulazione di un nuovo CCNL, anche qualora si stabilisca che i lavoratori appartenenti a determinate categorie debbano confluire in specifiche aree, non possono essere adibiti allo svolgimento di mansioni inferiori coloro che a causa di un’inidoneità fisica non possano eseguire i nuovi compiti che la riorganizzazione richiederebbe.

Neppure si può prevedere che la mancata esibizione della documentazione medica che certifica l’inidoneità sia di per sé elemento sufficiente all’assegnazione a mansioni deteriori rispetto a quelle previste nell’originario contratto individuale di lavoro.

In via teorica si deve esser sempre pronti al cambiamento, specie sul luogo di lavoro, in cui tutto può cambiare in poco tempo, persino se si è dipendenti di un ente pubblico come erano in passato le poste italiane.

Un esempio di ciò è costituito dalla storia di una donna, assunta proprio dalle Poste Italiane nel 1988 nell’ambito delle categorie protette, atteso il suo stato di invalidità, e inquadrata nella 4° qualifica funzionale.

Nel corso degli anni ella veniva periodicamente sottoposta a visite mediche e, pur dovendosi escludere i servizi notturni e quelli esterni, era sempre risultata idonea a svolgere le mansioni equivalenti alla sua qualifica.

Ciò fino al 1998, anno in cui l’Ente Poste Italiane veniva privatizzato, con stipulazione di un nuovo contratto collettivo nazionale sottoscritto il 26 novembre 1994; quest’ultimo stabiliva che i lavoratori già appartenenti alle ex 4°, 5° e 6° categoria confluissero nell’area operativa.

Tuttavia, da una visita medica cui la lavoratrice in questione si era sottoposta era emersa la sua inidoneità allo svolgimento delle mansioni dell’area operativa e così, del tutto arbitrariamente, il datore di lavoro aveva stabilito di inquadrarla nell’inferiore area di base, con decorrenza dal febbraio del 1996.

Demansionamento a corrispondenza e pacchi

Nello specifico, l’accordo integrativo del 23 maggio 1995 aveva previsto che l’inquadramento nella nuova area operativa degli appartenenti alla ex 4° categoria, di qualunque qualifica, potesse avvenire soltanto in presenza della idoneità degli interessati allo svolgimento di tutte le mansioni previste nell’area, con l’eccezione di quei lavoratori che, benchè sussistendo un loro accertato stato di inidoneità a una delle mansioni ascritte all’Area Operativa, fossero in grado di svolgere, e di fatto svolgessero, da data antecedente a quella di entrata in vigore del Contratto, mansioni di ripartizione delle corrispondenze e pacchi e/o di personale viaggiante e di recapito.

Veniva chiarito che il personale proveniente dalle qualifiche della ex IV categoria che risultasse formalmente inidoneo alle mansioni ascritte all’Area Operativa dovesse essere informato del successivo inquadramento nell’area di base, salvo il caso in cui avesse presentato certificazione medica attestante l’idoneità allo svolgimento di tutte le mansioni ascritte all’Area Operativa ed all’effettuazione delle turnazioni.

Sulla scorta di ciò, con circolare n. 27 del 25/08/1995 l’Ente Poste Italiane stabiliva che il persona assunto in quota obbligatoria e già inquadrato nella 4° categoria, risultato in seguito inidoneo a una o più mansioni dell’area operativa, dovesse essere informato della facoltà di presentare una nuova certificazione sanitaria attestante l’idoneità allo svolgimento delle mansioni stesse; in mancanza di quella nuova documentazione medica, il dipendente sarebbe stato inquadrato nell’area di base.

Tale decisione veniva però assunta in parziale difformità rispetto a quanto era stato previsto dall’accordo integrativo, che al contrario consentiva la permanenza nell’area operativa a coloro che, seppur inidonei, già svolgevano in precedenza una delle mansioni di quest’area.

La lavoratrice, fin dal 1988, aveva svolto compiti di ripartizione della corrispondenza ma, nonostante questo, non era stata fatta rientrare nei lavoratori che avrebbero dovuto permanere nell’area operativa.

Dal gennaio 2004 alla donna erano stati attribuiti soltanto i compiti di addetta alla guardiania e agli accessi, con conseguente adibizione a mansioni inferiori rispetto a quelle che in precedenza era chiamata a svolgere.

Alla luce di ciò, ella decideva di intentare causa nei confronti di quella che nel frattempo si era trasformata in Poste Italiane Spa, al fine di veder accertata l’illegittima assegnazione a mansioni inferiori e vedersi riconosciute anche le differenze retributive spettanti.

L’accertamento dell’illecito demansionamento

Il ricorso veniva depositato presso il Tribunale di Perugia il 12 maggio 2006 e, nel dettaglio, vi erano contenute le richieste della ricorrente relative all’accertamento del diritto ad essere inquadrata in una qualifica superiore, nonché a percepire come detto le conseguenti differenze stipendiali, con decorrenza dall’epoca in cui ella era stata declassata ad un livello contrattuale inferiore.

Il Tribunale all’udienza del 26 luglio 2011 dichiarava il diritto della lavoratrice ad essere inquadrata nell’area operativa dal febbraio 1996, confluita poi nel livello D della classificazione del personale, condannando la società resistente a pagare le differenze relative al trattamento economico, con rivalutazione monetaria e interessi legali dalla scadenza dei singoli ratei mensili al saldo.

Avverso tale provvedimento Poste Italiane Spa proponeva appello.

Nullità del ricorso secondo Poste

In primo luogo, la società resistente riproponeva l’eccezione di nullità del ricorso già avanzata in primo grado e respinta dal Tribunale, secondo cui l’atto introduttivo della ricorrente non sarebbe stato sufficientemente preciso e specifico nella descrizione della causa petendi e del petitum, ossia della domanda e della ragioni della domanda, non consentendo quindi alla controparte di approntare un’adeguata linea difensiva e compromettendo di fatto il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost.

In secondo luogo, si insisteva per l’accoglimento nel merito delle posizioni difensive sostenute dinanzi al Tribunale di Perugia, secondo le quali la condotta dell’appellante era apparsa perfettamente legittima poiché in linea non soltanto con il CCNL approvato in seguito alla privatizzazione dell’Ente ma anche con l’accordo integrativo successivo e con le circolari poi emesse.

Il punto era chiaro: per poter evitare di essere adibita alle mansioni dell’area di base, la lavoratrice avrebbe dovuto presentare subito all’azienda la documentazione medica attestante la sua inidoneità fisica, operazione questa che non era stata effettuata, per cui nulla si poteva pretendere in ordine ad una diversa assegnazione.

Diversamente, la parte appellata ribadiva l’illegittimità di quella qualificazione operata in fase di mutamento contrattuale, insistendo affinchè venisse confermata la sentenza di primo grado.

La lavoratrice, inoltre, proponeva appello incidentale lamentando la mancata determinazione da parte del giudice dell’importo delle differenze retributive dovute.

Il Tribunale, infatti, aveva proceduto ad una condanna generica, affermando il diritto della donna a percepire le differenze stipendiali, senza però individuare l’importo preciso.

La facoltà di produrre la certificazione

Per prima cosa, veniva rigettata l’eccezione della parte appellante relativa all’asserita nullità del ricorso introduttivo della lavoratrice. Fatta eccezione per l’aspetto relativo all’ammontare delle differenze retributive, esso era infatti considerato completo e sufficiente, essendo ben determinata l’esposizione degli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della domanda ed essendo ben specificato il petitum, ossia l’oggetto di questa.

Ciò detto, ci si occupava del merito della vicenda.

Le determinazioni dei giudici di secondo grado prendevano le mosse da un assunto: le Poste Italiane non avevano reso edotta la dipendente della facoltà di produrre una nuova certificazione medica, disponendo il suo inquadramento nell’area inferiore, senza neppure offrirle la possibilità di dimostrare di essere idonea alle mansioni da svolgere.

Tale comportamento veniva giudicato illegittimo, poiché non conforme alle regole che lo stesso Ente aveva fissato con la circolare n. 27 del 1995, oltre a quelle contenute nell’accordo integrativo, in cui si era prevista la facoltà di mantenere la propria qualifica se già in precedenza si erano svolte mansioni rientranti in quelle dell’area operativa.

Dalle prove presenti in atti si deduceva che, almeno nel periodo dal 1996 al 1999, la ricorrente fosse stata adibita a compiti di smistamento della posta, compresi proprio nell’area operativa, per cui al momento dell’entrata in vigore del CCNL dell’11 gennaio 2003 ella avrebbe avuto diritto all’attribuzione del livello D e non, come invece era stato fatto, del livello F.

Non solo. Veniva reputato illegittimo anche il sottrarre la lavoratrice ai compiti di smistamento sempre svolti, con adibizione esclusiva alle mansioni di addetta alla guardiania e agli accessi, in quanto ciò comportava la sua definitiva dequalificazione professionale, posta in essere in violazione dell’art. 2013 c.c., che come è noto consente l’assegnazione a mansioni inferiori solo in caso di riorganizzazione aziendale, quando questo sia l’unica alternativa possibile al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Sulla base delle superiori argomentazioni, l’appello di Poste Italiane veniva respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado.

Con riferimento alle richieste della donna contenute nell’appello incidentale, anche queste venivano dalla Corte d’appello rigettate. I giudici osservavano invero che il Tribunale aveva ben deciso in ordine alla condanna generica e non aveva determinato gli importi precisamente dovuti poiché non erano stati depositati dalla ricorrente conteggi comprensibili e chiari dai quali poter ricavare cifre specifiche.

La Corte, pertanto, condannava anch’essa al pagamento delle somme dovute da Poste Italiane a titolo di differenze retributive, senza determinazione di importo.

Demansionamento ristrutturazione aziendale

Le fasi di ristrutturazione aziendale sono sempre le più difficili e pericolose per le posizioni dei lavoratori, specie se si sta affrontando un passaggio estremamente delicato come quello della privatizzazione di un Ente pubblico.

Le mansioni cambiano, gli inquadramenti contrattuali anche e alcuni addirittura si ritrovano senza un posto di lavoro.

L’esempio rappresentato dal caso di specie deve però costituire un monito e allo stesso tempo un incentivo, poiché anche quando sembrerebbe più difficile far valere le proprie ragioni in un contesto che è profondamente cambiato da quanto si è stati assunti, comunque ciò è possibile, rivolgendosi ad un avvocato che tenga alla nostra situazione e cerchi di fare tutto il possibile per l’affermazione dei nostri diritti.

Riconoscimento Differenze retributive

Nella storia in commento non si può prescindere dal fare cenno alla definizione delle differenze retributive e a cosa debba intendersi quando si chiede al giudice un simile riconoscimento.

Con tale nozione si può far riferimento a diverse situazioni:

1) l’erogazione di una retribuzione base inferiore rispetto a quella prevista dal CCNL di categoria;

2) il mancato riconoscimento del passaggio ad una qualifica o ad un livello superiore;

3) le differenze retributive causate da un errato inquadramento contrattuale del lavoratore;

4) quelle dovute alla mancata applicazione di uno scatto di anzianità;

5) o alla mancata erogazione di tutto o parte del TFR al momento della cessazione del rapporto di lavoro;

6) il mancato riconoscimento delle ore di straordinario o errori di calcolo nella busta paga legati ad una o più voci o a calcoli fiscali.

In tutti questi casi ci si potrà rivolgere ad un avvocato del lavoro affinchè tuteli il diritto alla percezione delle superiori somme e condanni di conseguenza il datore di lavoro al pagamento.

 

Corte d’appello di Perugia, sezione lavoro, sent. 29 maggio 2014, n. 63.

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