La lavoratrice che resti assente per maternità ha il diritto a rientrare nella stessa unità produttiva occupata all’inizio del periodo di gravidanza e di essere adibita alle stesse mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.
Ogni altra assegnazione costituisce un’indebita ipotesi di demansionamento.
Ogni mamma per l’intera durata della sua vita lavorativa è costretta a fare i conti con il senso di colpa che inevitabilmente la accompagna ogniqualvolta si allontana dai propri bambini per andare a lavoro.
Fortunatamente pareva che la legislazione avesse fatto passi da gigante a tutela delle lavoratrici, riconoscendo non soltanto la tanto agognata parità dei generi, ma anche affermando e tutelando la diversità che proprio tra i due sessi esiste, tenendo conto di quella che è la distinzione principe: la maternità.
Una donna non può aver riconosciuti gli stessi diritti di un uomo lavoratore, perché la natura le ha assegnato un compito più alto, di cui non si può non tener conto sul posto di lavoro, ragion per cui si dovranno prevedere tutele maggiori, che le consentano di avere le opportunità lavorative a cui ha diritto e allo stesso tempo le permettano di conciliare tutto ciò con quello che è certamente un ruolo di pari importanza, ossia quello di madre.
Sebbene già da decenni l’art. 37 Cost. preveda che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore e che le condizioni di lavoro devono consentirle l’adempimento della sua essenziale funzione familiare, nonché assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione, vi sono ancora aziende alle cui orecchie detto principio non pare essere arrivato.
Una di queste sembra essere la 4G Holding Spa, la quale, in seguito al rientro di una lavoratrice che aveva beneficiato del concedo per la maternità, pensava bene di assegnarla a mansioni inferiori, annullando in un colpo solo la progressione di carriera che ella aveva maturato dopo quindici anni in azienda, semplicemente perché aveva fatta la scelta di diventare mamma, una scelta evidentemente ancora molto coraggiosa al giorno d’oggi.
La donna, prima di fruire del congedo, ricopriva l’incarico di Capo Area su Torino, un ruolo di responsabilità manageriale cui questa era giunta dopo una lunga gavetta, che l’aveva vista ricoprire dapprima la funzione di addetta al controllo qualità, inquadrata come impiegata del primo livello, e poi quello di capo area.
Tuttavia, al suo rientro dalla maternità, in maniera del tutto inaspettata si vedeva comunicata dall’azienda la sua diversa assegnazione all’attività di commessa, per di più in uno store molto lontano dal suo luogo di residenza.
Ma lei, al pari dei colleghi uomini, non può essere adibita a mansioni inferiori se non per ragioni organizzative nel caso in cui questa sia l’unica alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Non solo. L’azienda successivamente procedeva anche al licenziamento della donna.
Il licenziamento illegittimo e la reintegra
A fronte di tale condotta tenuta dalla 4G Holding Spa, la lavoratrice danneggiata decideva di far valere i propri diritti, in un primo momento inviando lettera raccomandata in cui contestava la legittimità di quanto accaduto, negando recisamente di aver mai acconsentito ad un simile spostamento come invece artatamente sostenuto dalla società, in un secondo momento agendo dinanzi al Tribunale.
In questa sede, la ricorrente chiedeva di accertare il suo diritto all’inquadramento come quadro, corrispondente alle mansioni svolte quanto meno dal 2003 e, per l’effetto, condannare la società convenuta al pagamento delle differenze retributive spettanti sino al 2007.
Ella chiedeva altresì che venisse dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare disposto dall’azienda, con conseguente ordine di reintegrazione nel posto di lavoro.
Dopo aver assunto numerose prove orali e disposto una CTU per la determinazione del danno biologico, il giudice del primo grado di giudizio accoglieva parzialmente il ricorso della donna e condannava la 4 G Holding S.p.a. alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro, nonché al pagamento in suo favore della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra e al versamento dei relativi contributi previdenziali e assistenziali, oltre rivalutazione e interessi dalle singole scadenze al saldo.
Il Tribunale accertava inoltre l’effettivo demansionamento della ricorrente, non giustificato da alcun precedente accordo tra le parti, per cui le riconosceva il diritto a percepire le differenze retributive, quantificate in euro 10.617,02.
Avverso tale sentenza proponeva appello la 4 G Holding Spa.
Collocazione concordata e riduzione dell’orario di lavoro
La società appellante, nel censurare la sentenza che la vedeva soccombente, tentava di giustificare la propria condotta asserendo che la collocazione prevista in seguito al rientro dalla maternità era stata concordata con la stessa lavoratrice, la quale aveva manifestato, ad avviso dell’azienda, la propria volontà di ridurre l’orario di lavoro.
Così facendo la società, volendo assecondare le richieste della propria dipendente, si era vista pertanto costretta a modificare le sue mansioni, così da renderle compatibili con le sue nuove esigenze famigliari, non contravvenendo in nessun modo a leggi o regolamenti.
In seguito, quando i primi dissidi erano sorti e la lavoratrice aveva manifestato in maniera inopportuna e illegittima il suo disappunto, si era purtroppo giunti alla sanzione disciplinare estrema del licenziamento.
Totalmente diverso era invece il punto di vista fornito dalla parte appellata, la lavoratrice, la quale ricostruiva in maniera diametralmente opposta le cadenze fenomeniche della vicenda.
Questa invero evidenziava nella propria memoria difensiva come non avesse affatto rifiutato le mansioni di Capo Area propostele dall’azienda con l’email del 21/09/2007, ma si era semplicemente limitata a ridiscutere le mansioni, specie con riferimento all’orario di lavoro, al fine di renderle maggiormente compatibili con le esigenze familiari e, segnatamente, con i periodi di riposo della madre garantiti dall’art. 39 d. lgs. 151/2001, il quale dispone che il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata.
La donna sottolineava inoltre di non aver mai preteso di svolgere il suo lavoro part time, ma si era semplicemente limitata ad osservare che i negozi a lei proposti perdevano in media il 30% sul budget e, pertanto, richiedevano uno sforzo maggiore; in un periodo di orario ridotto dal riposo giornaliero dell’allattamento, l’appellata riteneva quindi opportuno riflettere sulla composizione delle aree, ai fini di raggiungere un migliore risultato.
L’accoglimento della madre lavoratrice
Preso atto delle posizioni delle parti e delle prove formatesi nel corso del giudizio di primo grado, la Corte d’appello di Torino si schierava a fianco della lavoratrice.
In primo luogo, osservava come fosse un dato pacifico e non contestato dalle parti l’assegnazione alle mansioni di Capo Area prima della maternità, così come appariva dimostrato che viceversa, dopo il rientro dal congedo, la donna aveva svolto mansioni da semplice commessa, circostanza questa confermata anche da numerosi testimoni.
In secondo luogo, i giudice evidenziavano peraltro come, qualora la 4 G Holding avesse voluto realmente agire in buona fede e fosse stata vincolata da irrinunciabili esigenze organizzative, ben avrebbe potuto offrire alla lavoratrice l’alternativa tra un incarico in sede a Tortona, peraltro supportato dal servizio navetta, e l’incarico di Capo Area a Torino, con l’impegno lavorativo ipotizzato sui 18 negozi.
In questo modo almeno la donna avrebbe potuto scegliere tra mansioni di pari livello, che avrebbero comportato un pari grado di responsabilità.
Tutto ciò però non si verificava. Semplicemente l’azienda poneva la dipendente di fronte all’evidenza: se chiedi l’allattamento allora ritorni a fare la commessa.
Tale comportamento si poneva ovviamente in violazione di una serie di norme. Prima tra tutte quella di cui all’art. 56 d. lgs 151/2001, secondo cui al termine dei periodi di congedo per maternità è previsto il divieto di licenziamento e la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali in caso di risoluzione unilaterale del contratto.
Inoltre, il comportamento aziendale risultava inoltre illegittimo poiché contrario alle statuizioni del d. lgs. 198/2006 in ordine alle pari opportunità tra uomini e donne, nonché al disposto dell’art. 2103 in materia di demansionamento.
La dinamica dei fatti era evidente. La semplice e legittima richiesta della lavoratrice di discutere l’orario di lavoro in relazione alla recente maternità comportava le seguenti conseguenze:
1) la mancata adibizione alle medesime mansioni che svolgeva prima della seconda gravidanza;
2) il grave e manifesto demansionamento;
3) il trasferimento;
4) la creazione di una situazione di totale isolamento ed emarginazione;
5) il licenziamento, pretestuosamente motivato con assenze ingiustificate.
Alla luce di tali argomentazioni, la Corte d’appello rigettava l’impugnazione avanzata dalla 4 G Holding Spa e confermava la sentenza di primo grado in favore della lavoratrice.
La tutela della maternità è quanto mai un argomento attuale. Molte sono state le lotte fatte dalle precedenti generazioni per veder affermati i diritti femminili e le pari opportunità che ogni donna ha diritto ad avere sul luogo di lavoro, pur nel rispetto del suo ruolo di madre. Eppure non ci siamo ancora, anzi forse stiamo facendo dei passi indietro.
La globalizzazione, che porta all’estero molte delle produzioni, ci porta a competere con mercati in cui non esistono non soltanto i diritti delle madri, ma non c’è traccia dei diritti dei lavoratori in generale, per cui le aziende abituate a tali bacini risultano incredule di fronte a richieste di riduzione del carico di lavoro per l’allattamento.
Forse è tempo di nuove lotte.
Licenziamento disciplinare
Come visto, in alcuni casi si può addivenire all’estrema conseguenza del licenziamento disciplinare, posto in essere dal datore di lavoro ogniqualvolta il lavoratore si sia reso responsabile di una condotta illegittima, contraria ai doveri contrattuali, che abbia peraltro prodotto un danno all’azienda.
Prima di addivenire al licenziamento è però necessaria una contestazione degli addebiti effettuata per iscritto e notificata al dipendente, il quale deve avere la possibilità di difendersi in merito alle accuse che gli sono mosse.
Molte sono le ipotesi che possono condurre ad un licenziamento disciplinare.
Tra quelle rese pacifiche dalla giurisprudenza vi sono ad esempio l’assenza ingiustificata dal posto di lavoro, lo svolgimento di altra attività lavorativa durante i periodi di malattia, la sottrazione di informazioni o di materiale aziendale, nonché l’utilizzo per scopi personali degli strumenti lavorativi.
Corte d’appello di Torino, Sezione lavoro, sentenza 29 giugno 2010, n. 666

